mercoledì 13 aprile 2016

DA CHE PARTE STARE

Una premessa è d'obbligo. È senz'altro difficile esprimersi sulla puntata del 6 aprile di "Porta a Porta" senza scadere in frettolosi j'accuse e in altrettanto facili dietrologie. Come pure, d'altra parte, difficile sarebbe rimanere impassibili se uno dei "salotti" televisivi più noti manda in onda un'intervista al figlio di Totò 'u curtu; e lo è a più forte ragione per chi - come chi scrive - ha scelto la via degli studi in giurisprudenza.



In effetti, impassibili proprio non si poteva rimanere di fronte a Salvo Riina. Lo sguardo fermo o la mimica facciale rigida sono plasticamente il perfetto identikit del mafioso. A parte, però, l'ipocrita ostentazione di rispetto per una famiglia dove regna l'ambiguità e "la meglio parola è quella che non si dice", per una religione stiracchiata e seguita all'occasione e per una categoria di "valori" rivendicata con orgoglio, ma in concreto vacua, sono forse due i profili che colpiscono di più:
Il primo, il rapporto con la memoria.
Quella familiare va a corrente alternata: a volte Riina Junior "capiva", "sapeva" ed altre "non sa" oppure tace. Quando questi rifiuta di esprimersi sulle vittime delle stragi ordite dal padre ed i suoi accoliti o, perfino, sull'esistenza della mafia stessa, tuttavia,  è la memoria storica collettiva di un popolo - quello siciliano - che offende: quel silenzio, in un colpo solo, è come se cancellasse quarant'anni di sangue versato per le strade della Sicilia!!!
Quello che traspare è il messaggio chiaro, senza filtri, di un uomo che sempre si sentirà impunito al di là di qualunque condanna penale (il fine rieducativo costituzionalmente assegnato alla pena - 8 anni e 10 mesi nel suo caso - pare qui irrimediabilmente fallito) e, a voler guardare più a fondo, di una mafia old style che l'immagine pop di Matteo Messina Denaro ci aveva fatto dimenticare.

Il secondo, il senso dello Stato.
Nel quadro della vita di un Riina, non è che una sfumatura all'orizzonte, uno Stato di comodo, tanto utile quando gli si possono lasciare i giudizi su Capaci e via D'Amelio, quanto ingombrante, perturbatore dell'armonia familiare di casa Riina quando richiama ai doveri: invero irritano le parole "democrazia", "giusto" e "bene" se pronunciate con l’arrogante indifferenza di chi sembra non aver ancora imparato il linguaggio semplice, ma onesto della convivenza civile e dell'essere parte di una comunità. E - necessita dirlo - nella comunità della Sicilia di oggi, che tiene bene a mente il sacrificio dei suoi uomini migliori in lotta contro il peggiore cancro della sua storia, per Riina non c'è posto.
Il dibattito, però, pare aver candidamente aggirato i su menzionati aspetti - ben più rilevanti; ma è solo un'opinione - ed essersi concentrato esclusivamente su altro, o su altri: nel merito, sull'opportunità stessa dell'intervista e sulla persona di Vespa. Va anzitutto ricordato che l'intervista a un mafioso non è certo un unicum: altri prima di Vespa si sono cimentati - e i nomi sono tutt'altro che di secondo piano nel giornalismo italiano (Biagi, Santoro, solo per citare i più noti) -, al dichiarato scopo di tracciare agli occhi dello spettatore un ritratto più nitido del "mostro" di turno.
Ciò non può che rimandare a un dibattito sui fini e sul ruolo del servizio pubblico oggi e del giornalismo in generale: e questi non possono che essere proprio il "disvelare" la realtà dei fatti, al di là delle mistificazioni di parte, nel perseguimento di un interesse utile alla collettività. Bisogna, alla luce di tali considerazioni, domandarsi: è davvero andata così? Questa intervista ha aggiunto qualcosa di inedito a quanto già sapevamo su mafie e dintorni?
Agli studi forse no; ma la sensazione è stata ad ogni modo quella di un volto di mafia che ha penetrato il servizio pubblico per dialogare con l'esterno, per dire a chi - qualificato o no - lo stava ascoltando "io sono qui, su Rai 1, e sono il figlio di Riina". E, cosa ancor più grave, certe parole, certe espressioni non sembrano essere state colte nella loro gravità dall'intervistatore (sempre di spalle, quasi a non voler accostare il proprio al volto di chi aveva dinanzi), che non aveva competenze sufficienti a "leggere" i messaggi del codice-Riina e troppo spesso ha taciuto e non controbattuto alle mostruosità affermate (un esempio ex pluribus: l'attacco ai collaboratori di giustizia, i così detti pentiti).

Ma, al di là di qualunque altra considerazione, un aspetto altrettanto fondamentale e (stavolta) positivo c'è: questi accadimenti (che siano soltanto "incidenti" o il nuovo pane quotidiano del servizio pubblico, non sta qui stabilirlo), nel perturbamento che ingenerano nell'opinione pubblica e anche in chi di mafia non è avvezzo a parlare, nell'oceano di considerazioni anche a volte semplicistiche e cariche di conformismo, insegnano a tutti noi da che parte stare: se dal lato della collusione, dei silenzi, delle connivenze; o se dal lato della cittadinanza onesta e consapevole, se dal lato di quel "fresco profumo di libertà" che Paolo Borsellino ci ha insegnato con la sua vita e ricordato nel suo ultimo saluto all'amico Giovanni Falcone.

Noi sappiamo da che parte stare. E non è quella di Giuseppe Salvatore Riina. 

- Gianluca Candore, studente in Giurisprudenza presso La Sapienza

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